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''Accertato che la voce di un'intera generazione si era tolta la voce, rimasi senza voce'': Cobain, 25 anni fa

Il 5 aprile del 1994, come ogni maledetta mattina della mia adolescenza, ero alle prese con la drammatica decisione di cosa indossare per andare a scuola. Il rito mi angosciava, non per altro, solo per un eccesso di pigrizia: avrei preferito rimanere a letto, sprofondare, fare le ragnatele, piuttosto che oltrepassare l'uscio e scontrarmi con il mondo. 

Nel turbinio delle paranoie adolescenziali, il mio stereo sputava rock e sparava punk al limite dei decibel consentiti. Ero nella fase dell'I hate myself and i want to die, immediatamente successiva a quella del Kill your idols. Insomma, ''fase complessa'', a sentire i compagni; ''modaiola e regressiva'', per i fasci.

Quel 5 aprile del 1994 mio padre piombò in camera blaterando, in assensa di qualsiasi trasporto emotivo, ''è morto Nirvana''. Mi rendo conto che chiedergli di sapere chi fosse Kurt Dunald Cobain, era troppo. Ma quantomeno per una corretta e completa formulazione della notizia, avrei preferito facesse lo sforzo di aggiungere il sostantivo ''cantante'', così, giusto per fornire un indizio più preciso sull'identità del dipartito.

Accertato che la voce di un'intera generazione si era tolta la voce, rimasi senza voce. Mentre guadagnavo l'uscita di casa, Invicta sulle spalle e conciato in modo detestabile, mi tornavano alla mente, come flash, le immagini di qualche settimana prima. Avevo avuto la fortuna di assistere, alla tenera età di 14 anni, alla data romana dell'In Utero tour: il penultimo concerto della storia dei Nirvana, prima che Kurt, imbottito di valium ed eroina, decidesse di imbracciare un fucile e ridurre in brandelli la sua calotta cranica. Dire di essere stato al penultimo concerto dei Nirvana non è cool come dire di aver partecipato all'ultimo, lo so. Per anni alle amiche che sbavavano per Cobain ho mentito: ''Lo sai, io ho visto l'ultimo concerto dei Nirvana?'', ''Davvero, proprio l'ultimo?'', ''Sì''; gongolavo, ma mentivo. Erano gli anni dell'autodistruzione, della X Generation, del male di vivere. Eri fico solo se eri introverso, orso, assorto. Capelli lunghi unti, camicie di flanella a quadri: sognavamo di salire su un palco solo per sfasciarlo. 

Cobain funzionava da amplificatore dei nostri umori: rabbia contro il sistema, disillusione nei confronti del futuro. Insomma, una banda di sfigati senza speranza. Così ogni volta che da adolescente fantasticavo sull'idea di suicidarmi, mi ripetevo che dovevo aspettare i 27 anni: l'età di Kurt, ma anche di Jim, Jimi e Janis. Tutti membri del mitico e sinistro club del 27.

Oggi resta la nostalgia di quei primi anni '90, passati a consumare Bleach, Nevermind, In Utero. Resta impresso l'attacco di Serve the servant (L'angoscia adolescianziale mi ha dato il benservito, adesso sono vecchio e stanco). Resta quell'unico 'gracias' pronunciato da Kurt al concerto di Roma. Resta, soprattutto, l'angoscia mattutina.

 

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