Chi viaggia in Giappone alla ricerca dell’autentico si imbatte prima o poi nel concetto di wabi-sabi: un’estetica, ma anche una filosofia esistenziale che invita a riconoscere la bellezza nell’imperfezione, nella transitorietà e nelle cose semplici. È un’idea profondamente radicata nella cultura giapponese, eppure sfuggente. Non si trova nei grattacieli di Tokyo, né tra le folle di Kyoto. Piuttosto, si manifesta tra le travi storte di una casa di campagna, nei bordi scheggiati di una tazza da tè, in un giardino muschioso, in una foglia che cade lenta.
Chi desidera scoprire questi aspetti del Giappone meno turistico spesso sceglie formule di viaggio che consentano di esplorare anche le aree rurali e i contesti tradizionali, affidandosi a proposte di viaggi organizzati che – come si vede nel sito stograntour.com –includano luoghi fuori dalle rotte più battute. È in questi contesti che l’approccio wabi-sabi può essere vissuto come esperienza, prima ancora che come concetto.
La regione del Tōhoku, nel nord del Paese, offre paesaggi che incarnano perfettamente questa visione. Villaggi come Ōuchi-juku, con le sue case dal tetto di paglia e le strade sterrate, sembrano fermi nel tempo. In primavera, le fioriture si alternano al fango, in autunno la nebbia cancella l’orizzonte e lascia spazio all’interiorità. La bellezza qui non è scintillante, ma silenziosa e discreta.
Anche i sentieri montani della prefettura di Nagano, punteggiati da templi nascosti e locande ryokan in legno grezzo, permettono di sperimentare un ritmo diverso. Camminare lentamente tra i boschi, fermarsi a bere da una fonte, accettare che il temporale rovini i piani della giornata: sono tutti gesti che, senza saperlo, abbracciano il wabi-sabi.
Una delle pratiche dove questa filosofia si esprime in modo esplicito è la cerimonia del tè (chanoyu). Partecipare a una cerimonia in una casa da tè rurale è un’esperienza che va oltre il rituale estetico. Ogni ciotola, ogni utensile è scelto per la sua storia, le sue imperfezioni, la patina del tempo. Nulla è simmetrico, tutto ha un passato, tutto è accettato così com’è. Lo spazio stesso – spesso un piccolo padiglione in legno e carta – suggerisce quiete e attenzione al gesto.
Il wabi-sabi si ritrova anche nella cucina tradizionale contadina. I piatti cucinati in casa, serviti su ceramiche ruvide, esaltano la stagionalità, la semplicità e la frugalità. Nelle campagne di Shikoku o nelle valli della prefettura di Gifu, mangiare con i contadini significa accettare il ritmo della terra, il mutare degli ingredienti, la bellezza dell’essenziale.
Altri luoghi-simbolo di questa estetica sono i giardini karesansui, i cosiddetti “giardini secchi”, dove pietre, ghiaia e muschio suggeriscono paesaggi senza mai esplicitarli. La contemplazione, qui, non richiede parole: si osserva, si respira, si lascia che il tempo scorra.
Nella tradizione dell’artigianato giapponese, poi, l’imperfezione è elevata a segno distintivo. Nella ceramica raku, ogni pezzo è unico, cotto in modo irregolare, segnato da crepe e bruciature che ne raccontano la nascita. Il kintsugi, la tecnica che ripara le ceramiche rotte con l’oro, rappresenta visivamente la filosofia wabi-sabi: non si nasconde la frattura, la si celebra.
Molti viaggiatori tornano dal Giappone con l’impressione che le cose più profonde siano quelle non dette. L’architettura tradizionale che lascia filtrare la luce attraverso la carta di riso, le strade di montagna che si restringono tra boschi e risaie, le mani nodose degli artigiani che lavorano lentamente: tutto sembra sussurrare un’idea diversa di bellezza. Una bellezza non appariscente, ma vera, toccabile, vissuta.
Anche l’accoglienza giapponese – mai invadente, sempre discreta – riflette questa filosofia. Nei piccoli minshuku, nelle locande familiari lontane dalle città, si viene accolti con semplicità, si condivide il bagno, si cena insieme. Nessun lusso, ma una profonda cura per l’essenziale.
Per chi desidera esplorare il Giappone con occhi diversi, il wabi-sabi è una bussola preziosa. Non occorre conoscerne la definizione, basta imparare a guardare. A volte è una finestra che si apre sul verde, un oggetto dimenticato in un angolo, una tazza con il bordo scheggiato. In un mondo ossessionato dalla perfezione e dalla velocità, il Giappone rurale insegna che c’è valore anche nella lentezza, nell’usura, nella discrepanza.
In conclusione, cercare il wabi-sabi in viaggio non significa cercare qualcosa da fotografare. Significa imparare a percepire. Significa lasciarsi sorprendere dal silenzio, dalla patina delle cose, dalla delicatezza con cui il tempo lascia tracce. E in questo senso, il Giappone offre uno dei migliori insegnamenti: che la bellezza non è sempre evidente, ma si svela a chi sa aspettare.
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