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Petrolio, l'appello del Comitato No Trivellazione ai consiglieri: "La verifica ambientale resti alla Regione"

no trivellazioni

Dal Comitato No Trivellazioni petrolifere in Irpinia riceviamo e pubblichiamo:
Con il decreto così detto “Sblocca Italia”, fortemente voluto dal Governo ed in vigore dal 12 settembre scorso, si ridefiniscono totalmente le procedure autorizzative per i permessi di ricerca di idrocarburi con lo spostamento di competenze decisionali dalle Regioni ai Ministeri e con un sostanziale ridimensionamento delle procedure di verifica ambientale sulla portata dei progetti.
In una riforma camuffata del Titolo V della Costituzione, il Governo toglie voce alle comunità locali concentrando poteri e scelte nelle mani dei Ministeri nella prospettiva, così si dice, di agevolare politiche di sviluppo altrimenti ostaggio di “comitatini” o di comunità che difendono i loro territori. 
Su questa corsa forsennata verso un progresso, che sa più di Italia degli anni 50 che di nazione aperta e progredita, non poche sono le perplessità che emergono e soprattutto tanti appaiono gli interrogativi sulle reali opportunità che tali provvedimenti possano apportare allo sviluppo e alla crescita delle politiche energetiche italiane.
Analizzando un’inchiesta di Leonardo Maugeri de IlSole24 ore, partiamo dal dire che, comunque si mettano le cose, l'Italia ha una dotazione molto modesta di idrocarburi. Allo stato delle attuali conoscenze, le uniche riserve di una certa consistenza si trovano nell'Alto Adriatico (gas naturale) e Basilicata (petrolio). Per il resto parliamo di piccoli giacimenti che in nessun modo potrebbero contribuire a rendere l'Italia meno dipendente dal petrolio e dal gas importati. Peraltro, dal punto di vista della sicurezza energetica, almeno nel caso del petrolio ha poco senso affannarsi nello sfruttamento di risorse interne poiché il mercato internazionale è aperto e ricco di fornitori e si può tranquillamente coprire il fabbisogno interno con importazioni. Sul piano dei possibili ritorni in termini di tassazione per lo stato e di crescita dell’occupazione, emerge un quadro tutt’altro che faraonico così come si vuole fare intendere. Anzitutto, l'industria del petrolio non è ad alta intensità di lavoro. Si pensi, per esempio, che la Saudi Aramco, il gigante di stato saudita che controlla le intere riserve e produzioni di petrolio e gas dell'Arabia Saudita, impiega circa 50.000 persone (molte delle quali solo per motivi sociali) per gestire una capacità produttiva che, nel petrolio, è oltre sette volte il consumo italiano, mentre nel gas è superiore del 40% al fabbisogno nazionale. Inoltre, le possibili produzioni italiane cui dare mano libera sarebbero vantaggiose (aldilà degli aspetti fiscali) solo se si tengono sotto stretto controllo i costi, e quindi si limita l'assunzione di personale. Infine, gran parte dei siti produttivi si controllano con poche persone, in molti casi da postazioni remote. Anche nel caso di un via libera generalizzato alle trivelle, quindi, è alquanto dubbio che si possano creare i posti di lavoro di cui si è parlato (25.000): forse il numero sarebbe di poche migliaia. È vero, invece, che gli investimenti richiesti sono nell'ordine dei miliardi di euro. Ma è pur vero che quegli investimenti non hanno il potere di generare l'effetto di trascinamento proprio di altri settori dell'industria, poiché si concentrano nell'esplorazione e nello sviluppo di un giacimento. L'effetto trascinamento si registra solo quando si è di fronte a giganteschi progetti di sviluppo che richiedono di costruire dal niente enormi infrastrutture (ma anche abitazioni, servizi, e altro), come sta accadendo - per esempio - nel North Dakota (USA), epicentro della rivoluzione dello shale oil. Quanto al gettito fiscale, è indubbio che ci sarebbe, ma anch'esso di portata ridotta, considerati gli alti costi necessari a sostenere piccole attività di produzione. 
Se dunque l’accellerazione impressa alle ricerche petrolifere sembra essere solo una sorta di accanimento terapeutico contro il sottosuolo e l’ambiente rispetto alla necessità di una politica di salvaguardia e valorizzazione del territorio anche in chiave energetica, lo Sblocca Italia apre anche non poche perplessità sulla portata dei guasti istituzionali che inevitabilmente produce. All’indomani della sua emanazione la Regione Basilicata ha approvato una risoluzione che impegna il Presidente e la Giunta regionale ad attivare a partire dalla Conferenza delle Regioni, dalla Conferenza Unificata e di concerto con le rappresentanze parlamentari lucane, ogni utile azione al fine di sostenere in sede di conversione del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 la tutela delle prerogative regionali previste dalla Costituzione italiana e, in particolare, a chiedere: la modifica degli artt. 37 e 38 del decreto Sblocca Italia e la loro riscrittura in coerenza con le previsioni costituzionali vigenti, la Regione Puglia si è mossa con l’approvazione di una delibera. 
In una analisi complessiva del provvedimento emerge, come più grave di ogni altro aspetto, la mancanza di un disegno organico di sviluppo che preveda formule coerenti di tutela del territorio e di rilancio delle prerogative ambientali e sociali nell’ambito di una politica energetica che presupponga un deciso incremento delle produzioni di energia alternativa.
Correre quindi!!!....ma per andare dove??? E soprattutto per raggiungere quale obiettivo???
Ancora una volta assistiamo ad azioni dettate dall’emergenza senza una reale visione di crescita mediata con le esigenze del territorio.
E poi c’è il caso Irpinia.
Il progetto Gesualdo-1 attende la verifica ambientale della commissione tecnica regionale ma sulla base delle indicazioni del decreto, c’è il rischio, in caso di piena conversione del testo da parte del parlamento, che il procedimento autorizzativo passi nelle mani del Ministero dell’Ambiente se non licenziato entro la fine di quest’anno. Allo stato, come comitato stiamo provvedendo alla verifica delle documentazioni tecniche fornite dalla società per la presentazione di contro deduzioni da portare all’attenzione della commissione. Dalle ultime carte emerge la natura di un progetto fortemente impattante sul territorio per la portata dei possibili effetti inquinanti ma soprattutto per l’invasività dei cantieri di lavorazione, che sono previsti in pratica all’interno del centro urbano di Gesualdo. Rimane forte il timore che questo progetto finisca realmente per stravolgere l’assetto anche urbanistico della valle ufita, aumentando e non poco tutti i rischi di dissesto geologico dovuto alla presenza delle aree delle mefiti e di possibile inquinamento delle acque.
L’accellerazione impressa dal Governo quindi impone una medesima presa di posizione anche da parte delle istituzioni locali per bloccare questo progetto.
Al pari di quanto fatto dalla Regione Basilicata, lanciamo un appello ai consiglieri irpini a promuovere in consiglio una risoluzione nella quale chiedere, il fase di conversione in legge del decreto, il mantenimento delle competenze regionali di verifica ambientali sui progetti di ricerca di idrocarburi ma anche una reale azione finalizzata a predisposizione di vincoli di tutela ambientale per le aree interne. 
Medesimo appello lanciamo anche ai parlamentari irpini, che sino ad ora hanno agito a sostegno Di proposte di modifica della legislazione in materia di trivellazioni su terraferma, di adoperarsi per la loro rapida applicazione.
Se il Governo corre è il momento che chi rappresenti l’Irpinia si dia una mossa!!!

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