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Politica

De Mita, Pansa e la sindrome del ''genio incompreso'': «Non mi capisci. Come puoi pretendere di farmi delle domande?»

Quel delizioso botta e risposta di quando il giornalista venne Irpinia per raccontare il potere Dc

de mita

A volte capita di leggere dei libri e di rimanere piacevolmente sorpreso. Divertito nel leggere un qualcosa che non ti aspettavi. Il libro in questione, uscito poco più di un paio di anni fa, è “I Cari Estinti. Faccia a faccia con 40 anni di politica italiana”. L’autore è Giampaolo Pansa, giornalista e scrittore noto al grande pubblico.
Bene, nel libro Pansa ripropone una inchiesta realizzata ad Avellino e in Irpinia, nei primi anni settanta, quando potere era sinonimo di De Mita. Il reportage racconta delle lotte interne alla Dc, del carisma del leader di Nusco, degli amici e dei nemici di Ciriaco. Nel pezzo vengono citati Salverino De Vito, Enzo Venezia, Gerardo Bianco, Italo Freda e Giovanni Acocella, solo per fare qualche nome. Ne venne fuori un ritratto di De Mita paragonabile a quello di un ''Ras locale'', di un feudatario che tutto può. La parte più divertente dell’inchiesta, uscita il 31 ottobre 1973, con il titolo “I giovani manager della miseria”, riguarda quel che successe dopo. Meglio di noi lo racconta lo stesso Pansa nel libro: “De Mita impazzì di rabbia. In un'intervista all'”Espresso" mi definì bandito e miserabile. Poi mi tolse il saluto e anche l'udito. Nel senso che s'impegnò a non rivolgermi più la parola: niente interviste, niente dichiarazioni, niente di niente. Quando riprese a parlarmi, mi collocò nella categoria dei giornalisti incapaci di comprenderlo. Ossia nel novantacinque per cento dei cronisti che scrivevano di lui. Fu allora che Ciriaco cominciò a farmi tenerezza. Era afflitto dalla sindrome dell'Incompreso. Frequente nei politici che ritengono di avere pensieri alti e non trovano mai interlocutori di livello adeguato. In ogni intervista si rasentava il dramma. Scrutandomi più infelice che beffardo, Ciriaco sospirava: «Tu non mi capisci. Come puoi pretendere di farmi delle domande?». Forse si sentiva davvero un intellettuale della Magna Grecia. Così l'aveva definito l'avvocato Agnelli. Era sarcastico e sferzante. Ma anche concettoso e a volte troppo sottile. La sua ricchezza intellettuale prendeva spesso la forma di una matassa difficile da dipanare. Un bel limite in Italia e ancora di più all'estero. Se ne accorse nel giugno 1988, quando andò a un vertice a Toronto come capo del governo. Il "New York Times" scrisse che gli statisti che lo ascoltavano, la signora Margaret Thatcher per prima, pensavano di avere dei problemi con l'auricolare. Invece era l'interprete di Ciriaco che aveva gettato la spugna. Lo capivano bene gli amici del cuore. Soprattutto Gerardo Bianco, il dolcissimo Topo Gigio. Lui lo scusava sempre: «In Ciriaco il carattere sopraffa l'intelligenza». Ma il traduttore più fedele era il suo portavoce, Clemente Mastella, un ragazzone di Ceppaloni, provincia di Benevento, tirato su da De Mita come un figlio. Per addolcire il ricordo di certe arroganze del capo, Clemente ci spediva ogni Natale una scatola di torron-cini di Benevento. De Mita preferiva regalare cravatte, accompagnate da biglietti ammonitori: "Un Natale sereno per valutazioni più serene". A me la cravatta demitiana pareva sempre orribile. E andavo a cambiarla in un negozio accanto a Montecitorio, dove era stata comprata. Però guai a dirglielo. Ciriaco si riteneva un uomo elegante. Anche quando indossava di mattina doppiopetto gessati che facevano a pugni con la sua faccia sbircia e le basette da gitano. Certo, era arrogante. Ma la sua superbia mi sembrava accettabile perché paesana. Più o meno tutti venivamo da famiglie povere, con padri operai o sarti che si erano svenati per far studiare i figli. Nelle nostre esistenze c'erano persone o vicende che si assomigliavano". 

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